16 Apr 2014
L’Università Cattolica - Policlinico A. Gemelli e Fatebenefratelli di Roma e Brescia, hanno creato un test che misura gli eccessi di rame nel sangue che possono triplicare il rischio di demenza senile la cui forma più frequente è il morbo di Alzheimer. Si pensa che in circa il 60% dei casi di Alzheimer il rame svolga un ruolo significativo nei processi patologici alla base della malattia poiché Il rame arrivando nel cervello potrebbe reagire con i frammenti di beta-amiloide provocando stress ossidativo e rendendo quei frammenti tossici, come già dimostrato in test su animali.
L’Università Cattolica – Policlinico A. Gemelli di Roma e Ospedale Fatebenefratelli di Roma (Fondazione Fatebenefratelli, AFaR) e IRCCS Istituto Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli Brescia, hanno sviluppato e testato con successo un test del sangue per predire il rischio di ammalarsi di Alzheimer misurando le concentrazioni plasmatiche di rame “libero” nel sangue e quindi capace di circolare fino al cervello ed andare a danneggiarlo (rame non-ceruplasminico).
Il test è stato convalidato in un lavoro appena pubblicato sulla rivista Annals of Neurology, sperimentandolo su un gruppo di 141 soggetti ad alto rischio di ammalarsi di Alzheimer in quanto già colpiti dal cosiddetto “lieve declino cognitivo” (un disturbo della memoria che può spesso essere l’anticamera dell’Alzheimer) e monitorati mediamente per quattro anni per vedere chi sviluppava la malattia di Alzheimer e chi no.
Lo studio dimostra che il rischio di sviluppare l’Alzheimer è di circa 3 volte più alto (triplicato) nei soggetti con molto rame “non-ceruloplasminico” nel sangue rispetto a quelli con una concentrazione normale di questo metallo.
Lo scopo è quello ridurre la probabilità di ammalarsi abbassando le concentrazioni di rame nel sangue di soggetti a rischio. Il prossimo passo è quello di vedere se, riducendo il rame “non-ceruloplasminico” nel sangue di soggetti a rischio con strategie ad hoc – particolari regimi dietetici e altri interventi - si riduce la loro probabilità di ammalarsi. Lo studio durerà due anni e i primi risultati sono attesi per il 2017.
Tratto da Quotidiano Sanità